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Può il teatro dire "io" parlando dell'altro?

Updated: Feb 20, 2020


Un incontro con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

A.1.2. Au-delà des frontières (géographiques ou linguistiques)




Tra intimità e mondo pubblico il teatro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini prende il via dalle osservazioni sulla scena e sulla vita di tutti i giorni che gli attori annotano sui loro quaderni. Si tratta di una sorta di indagine costante sul reale, sulla propria intimità, sulla parola sentita e non ascoltata in un momento, ma ripensata nella tranquillità di un altro.

Il reale e il teatro. Un tema che in questi tre giorni di conferenze organizzato dall’EASTAP, sembra essere il centro di tante discussioni e incontri, artistici e accademici che siano. Forse mai come oggi, in un momento di crisi che sembra non risparmiare nessuno, il reale prende un posto tanto importante nelle arti performative.

Come parlare del reale? Come mostrarlo, rappresentarlo? come trasformarlo in processo artistico e poi in creazione? Quale diviene il rapporto tra realtà e finzione nel momento in cui è del reale che si vuole parlare? Quale processo di poeticizzazione è legittimo nel momento in cui si tratta di traumi, di sofferenze e dolori che non sono i nostri?

Come può l’attore dire “io” nel momento in cui parla di un altro che non ha potuto parlare, che non può parlare? Come prendere la parola dell’altro e farla propria, ma con rispetto?

Si tratta di domande che gli artisti si pongono ogni giorno di più, dal momento in cui il teatro stesso ha deciso di avvicinarsi alla politica, alle questioni sociali, forse per una questione di urgenza, di paura di non avere una voce abbastanza forte per poter cambiare le cose. Ma come farlo?

Il teatro resta un’arte, e un’arte per quanto atto politico in sé, non può “fare della politica”: la lingua non è la stessa. Ma questo non toglie nulla alla potenza e all’influenza che l’arte, e il teatro in particolare, grazie al suo essere diretto, vivo e condiviso nel qui e ora, ha avuto e avrà sempre.

Se nella drammaturgia di finzione la questione è come interpretare il personaggio al meglio, come avvicinarlo alla propria persona in maniera de rendere l’impressione di incontrarlo realmente su scena e, se non incontrarlo, almeno di avvicinarne l’idea e la sostanza nell’idea dell’autore o del regista, tutto sembra cambiare quando i personaggi sono persone reali, quando le storie da raccontare sono storie realmente accadute.

Diversi artisti e relatori di oggi hanno affrontato la questione. Nelle sale si sono levate diverse mani per contestare il diritto di un artista o di un altro a parlare di … qualcuno, per qualcuno.

Il problema è davvero chi ha il diritto di dire cosa? Sarebbe indubbiamente auspicabile che tutte le voci potessero esprimersi su un palco, ma l’importante, credo, è come le cose vengono dette.

Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si sono interrogati a più riprese su questa problematica. Senza dimenticare la poeticità del teatro, trattano tematiche difficili e storie di dolore, ma con rispetto, trasformando le voci altrui e incorporandole. La voce dell’altro non passa per le loro bocche come attraverso un qualunque medium che trasporta informazioni, il dolore che sentiamo nei loro spettacoli é il loro dolore, quello degli attori che si avvicinano a se stessi tramite l’altro.

Non c’è appropriazione indebita.

Non si diviene il personaggio, non si imita fino alla quasi-metamorfosi, si utilizza se stessi per far passare la parola dell’altro.

Daria afferma “il dolore è di tutti, non c’è nessuno che ha più diritto di un altro a provare il dolore. Il dolore c’è o non c’è, e il teatro deve solo capire come dargli corpo e parola”.

Come parlare della crisi in Grecia e del suicidio di quattro donne che non vogliono più dare preoccupazioni (“Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”)? Rivivendo la propria crisi, la crisi dell’Italia, che è una crisi diversa, ma che può aiutarci a capire.

Daria Deflorian alla fine dell’intervista che pubblichiamo qui mi ha consigliato di leggere un filosofo francese che lei ama molto: François Jullien. Scrive di intimità come luogo dell’io che non può essere vissuto in solitudine. L'intimità è l’estremità dell’io, ma non può esistere che con l’altro. Forse è proprio di questo intimo politico che il teatro dovrebbe parlare. Forse è proprio grazie all’incorporazione dell’altro e la sua trasformazione in "io" e attraverso quindi la lingua propria al teatro, che si può parlare di un’unione culturale.


A.1.2.

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